La voce della dissomiglianza

Gianluca Quaglia e il paesaggio dell’anima

 

testo di Giancarlo Lacchin estratto da Il Miglior Posto. Un dialogo tra artisti nel tempo, a cura di A. D’Amico, Catalogo della mostra di Monza, Villa Reale,

29/11/2017 - 14/01/2018, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale 2017, pp. 57-67.

 

[...] La dinamica che costruisce il paesaggio delle immagini di Quaglia invita pertanto a una fruizione dello spazio non come obiectum per così dire di speculazione consapevole, ma come esperienza eccentrica e distraente, che permette di penetrare nella “caligine” che sovrasta l’uomo e di guardare in faccia il mistero, certo non cogliendone in modo chiaro e distinto i confini e i limiti, ma, in penombra e in chiaroscuro, vivendone lo spaesamento che esso provoca. In tal senso opere come Boom, Sappiamo solo ciò che possiamo imparare (luce) e Sappiamo solo ciò che possiamo imparare (buio) attraverso il contrasto luce/buio ci proiettano direttamente nella sfera della dissomiglianza, in un orizzonte cioè di nascondimento-svelamento che costituisce l’unico ambito di conoscenza concesso all’uomo, e in particolar modo all’uomo contemporaneo. Il principio di dissolvenza dell’oscurità attraverso le sottrazioni di materia determinate, anche qui, dai punti luce viene quasi a fissare il processo di

carattere dinamico, che ci viene restituito in un’immagine apparentemente fissa e immobile, muta e monodimensionale, segno, appunto, di quella che

possiamo intendere come una “sacralità negativa”. [...]

 

 

Passeggiando in un museo

Appunti sull’opera di Gianluca Quaglia per una mostra.

 

testo di Lorenzo Madaro estratto da Il Miglior Posto. Un dialogo tra artisti nel tempo, a cura di A. D’Amico, Catalogo della mostra di Monza, Villa Reale,

29/11/2017 - 14/01/2018, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale 2017, pp. 69-71.

 

[...] Ne Il miglior posto. Un dialogo tra artisti nel tempo alla Villa Reale di Monza Gianluca Quaglia ha agito con un approccio site-specific, confrontandosi contestualmente con una tela di Giovanni Francesco Guerrieri – La Vergine con il Bambino e sant’Anna del 1627, proveniente dalla Cattedrale di Fossombrone – e l’architettura stessa in cui è ospitato il progetto espositivo, la Cappella reale.

L’iscrizione posta ai piedi della scena rivela concettualmente una determinata attitudine dell’arte del tempo, ovvero che quel dipinto deve offrire un messaggio

molto chiaro, deve comunicare direttamente con il fedele e avviare una relazione di dialogo quindi con il suo pubblico. E sulla fruizione – oltre che su un dilatato concetto di spiritualità – si concentra concettualmente l’installazione che Quaglia ha pensato per questo doppio e contestuale dialogo, quello con il dipinto e quello con l’architettura che lo ospita insieme all’opera del maestro seicentesco.

Le sue due “pale” laterali, che inquadrano il dipinto di Guerrieri, sono state realizzate con grafite argentea su una base fotografica stampata in digitale.

Raffigurano un cosmo, che indirizza la riflessione verso una sacralità laica. La pedana di legno ricoperta di moquette disegna una connessione tra il centro della chiesa e l’area della contemplazione diretta in prossimità delle tre opere – le due di Quaglia e la tela di Guerrieri –, consentendo una simbolica ascensione pedonale al cospetto di quella che apparirà nella sua totalità un’unica installazione concepita con un approccio plurale[...]

 

 

Le cose che posso raccontare usando una parola

 

testo di Marco Roberto Marelli

 

Siamo creature del mito perse nella razionalità. La parola è strumento potentissimo, può contenere universi o generare divisioni. Con una sola parola, attraverso una singola immagine si può rievocare un mondo, raccontare una storia. Per scrivere un romanzo basta prendere la realtà e narrare quello che poteva essere.

Nella sala dedicata alla pittura di paesaggio dell’Ottocento del Museo del Territorio Biellese, Gianluca Quaglia presenta le cose che posso raccontare usando una parola, una grande installazione che invade il pavimento attraverso la riproduzione in ceramica di rocce e di “cavallini aurei”, tra i quali uno realmente ricoperto di oro zecchino. Tutto parte da una leggenda, una storia persa nel tempo che narra di antichi romani che sfruttarono come schiavi i biellesi per raccogliere l’oro della Bessa.

Nessuno ama i padroni e questi antichi piemontesi, a poco a poco, si impadronirono di parte del raccolto aureo per produrre una piccola statuetta di forme equine, un piccolo idolo ancora oggi nascosto fra le pietraie sorte vicino al fiume. Attraverso un’attenta ricerca, che sviluppa una profonda riflessione sul rapporto fra natura e cultura,

Gianluca Quaglia utilizza, rendendolo attualissimo, un materiale antico come la ceramica per generare la sua modernissima pittura di paesaggio. L’artista rappresenta il mondo che noi tutti possiamo ammirare durante una passeggiata, attraverso una personale e lirica scomposizione per sineddochi. Una realtà che non è mai libera da interpretazioni ma sempre mediata dallo sguardo umano, da una cultura accumulata per secoli che modifica il territorio e la nostra modalità di percepirlo. Il Cavallino d’oro è là fuori, a noi non resta che aprirci a una narrazione del possibile, per tornare un poco bambini e lasciare alla vita la possibilità di sorprenderci.

 

 

Che cosa sto guardando?

 

testo di Antonio D’Amico estratto da Gianluca Quaglia How old is the universe, Page not found 11, Albiccola Marina, Vinilla Edizioni 2016, pp- 09-10.

 

L’espressione artistica di Gianluca Quaglia corre lungo due binari che convergono in un punto focale della sua ricerca: dar corpo alle intrinseche relazioni tra l’essente e ciò che da esso scaturisce. Ne risulta una singolare interpretazione di quel flusso ininterrotto che esiste tra il reale e la visione di esso, ottenuto attraverso l’impiego di immagini convenzionali diversamente manipolate. Gli interventi sulla materia modificano la valenza dei singoli elementi, generando satelliti di realtà in continuo mutamento, sia nei lavori installativi ambientali sia nelle opere di piccolo formato.

Nel quotidiano, le immagini “sono spesso l’unica luce nell’oscurità” che rassicurano e orientano il cammino. All’interno delle installazioni di Gianluca Quaglia si accede invece in uno spazio nel quale si è contemporaneamente estraniati e disorientati dalle immagini, in quanto sono rivelatrici di una dimensione surreale vissuta con la percezione che tutto è in movimento, in un continuo interagire tra sé e l’altro da sé. L’artista studia la realtà circostante, ne rileva i dettagli più significativi, li reinterpreta, li trasfigura, sovrapponendo un’atmosfera di spaesamento e di sublimazione. Al fruitore è richiesto di vivere lo spazio con una partecipazione spontanea, un’esplorazione involontaria, per esprimere gesti liberi e schietti. Si può fare così un’esperienza corporea dell’opera d’arte senza vincoli nei movimenti, sentendosi immersi nelle ombre della notte, simulata in the shadow and I, oppure vagando tra i segni di un paesaggio sui generis carico di illusione. In da lontano ma vicino le rocce raccontano i pensieri della mente, che si accalcano e allo stesso tempo si liberano tra l’azzurro di cieli nitidamente delineati, mentre postcards/rest è la metafora di un grande viaggio.

Le cartoline postali, infatti, sottolineano un ricordo, un momento, una pausa di lettura e tutte insieme, interposte tra le pagine dei libri o tra un libro e un altro, trasmettono l’immagine globale di un luogo vissuto nella realtà e nella memoria.

“Nell’epoca della circolazione universale delle immagini tutto è stato visto e letto, tutto racconta tutto; i paesaggi del mondo si

assomigliano sempre più, invece di differenziarsi, di sottrarsi al discorso e di sorprenderci. Il recupero di un senso del luogo, del vissuto, e l’uscita dal banale e dal ripetitivo dovrà comunque, se ha ancora motivo di essere, passare attraverso l’immagine-paesaggio” . Gianluca Quaglia nei suoi lavori riflette su queste considerazioni espresse da Michael Jakob e concettualizza ed estrinseca un pensiero che fonda le sue radici sulla labilità del confine tra il reale e l’ideale, tra il visibile e l’invisibile, tra

il vissuto e il sognato, tra il tangibile e l’ineffabile. Nei lavori di piccolo formato poi, le sue “immagini” sono popolate da elementi decorativi, uniti tra loro come in uno scenografico atlante figurativo. Essi provengono da volumi enciclopedici, da tavole entomologiche di fine Ottocento e inizi Novecento o dalle così dette “carte

di Firenze”. Attraverso l’intaglio, l’accumulo, la cancellazione del colore, come si può vedere tra gli altri in black butterflies, o della forma, proprio come nel mimetico tutto ciò che ha l’aspetto della polvere (camaleonte), le immagini perdono la loro valenza iconografica e conquistano la sostanza di un nuovo luogo altro dal reale.

Per Quaglia, infatti, questi interventi sono gesti silenti, meticolosi e pazienti, compiuti per scardinare il palinsesto iconico consueto di un immagine, restituendola alla collettività carica di un nuovo senso estetico, di una nuova ridefinizione che ne indebolisce la reale fruizione standardizzata e la eleva a un pensiero speculativo. Estraendo l’elemento decorativo dal suo contesto originario l’artista trasforma la concezione univoca del visibile, attivando una moltiplicazione dei punti di vista.

“Nel contatto con la natura, che dichiarerà sublime, il soggetto compie una sorta di seconda Creazione: va alla ricerca dell’inusitato, si fa sorprendere, supera la paura e trasforma infine in immagini tutto ciò che vede” , immaginando di vedere.

 

 

Ritagliere, disperdere, cancellare. Ricomposizione dei residui originali

 

testo di Francine Mury

 

Immergersi nell’universo di Gianluca Quaglia significa lasciarsi condurre attraverso una successione di stati d’animo poetici, significa farsi da parte e osservare corrispondenze celate e associazioni fertili di significati legati alla natura.

Antiche stampe botaniche ci rimandano all’epoca delle loro origini, a raffigurazioni naturalistiche accompagnate da descrizioni, disposte per essere divulgate. L’artista intende ricomporre proprio queste tavole seguendo il tema dell’impollinazione, della fecondazione tra mondi diversi, tra creature e tra differenti specie in qualsiasi situazione possibile. La decostruzione di queste tavole botaniche avviene in modo imprevedibile ma determinato. Coprire, ritagliare, ricomporre e mischiare le immagini è un modo per donare una nuova visione interrogativa ad una posizione d’ibridazione. Il risultato finale non consiste tanto nella decostruzione delle immagini ma nella ricerca di una nuova delimitazione territoriale in cui riporle, una forma estesa come un’installazione. L’ablazione di certi elementi, estrapolati dal loro spazio abituale, ha la funzione di astrarli dalla loro funzione primaria. Il termine ablativo, tratto dalla chirurgia, in questo caso esprime l’atto di cancellare o eliminare e mira a rimuovere la parte di un tutto. E’ un trattamento curativo della forma ricercata? L’utilizzo della carta rappresenta un mezzo dalle infinite possibilità; la carta, fin da quando è stata inventata, è un grande strumento di comunicazione, vettore di significati comunicativi che va oltre lo spazio e il tempo. Quest’opera rimarca l’immensa pazienza che Gianluca Quaglia dedica ai minuziosi tagli, alla dissolvenza delle forme per poi disperderle. Bisogna lasciarsi accompagnare dall’oblio della conoscenza; l’inconsapevolezza non è ignoranza, bensì un complesso stato del saper ”andare oltre”. E’ questo il senso che, in ogni istante, fa si che la creazione di un’opera si trasformi in un esercizio di libertà. Così, l’atto del rimuovere, occultare ed eliminare, fa parte dell’interpretazione che si colloca nella lettura dell’imponderabile.

 

 

Farsi luogo

 

testo di Antonio D’Amico

 

Nel processo creativo di Gianluca Quaglia si distingue sempre una pars destruens a favore di una pars construens fondata sull’intaglio, un gesto solitario, meticoloso e paziente, che scardina una riconoscibilità collettiva, in quanto genera il disorientamento di un’identità omologata e, allo stesso tempo, la ricomposizione soggettiva di una totalità perduta. L’artista milanese produce una rottura dell’equilibrio tettonico del linguaggio comune, poiché estraendo l’elemento decorativo dal suo contesto originario, concepisce una nuova dimensione dell’oggetto, riformulandone la fruizione su due direzioni. Da una parte, il foglio di carta decorato si svuota della sua consistenza visiva per farsi luogo illusorio e dall’altra, la decorazione diviene oggetto che conquista lo spazio tattile della tridimensionalità. Quello che in origine era il foglio di carta decorato, con l’intervento destruens di Gianluca Quaglia, diviene un nuovo luogo construens in cui regna sovrana l’illusione della purezza, in cui le forme sono segnate da linee e

ombre quasi del tutto evanescenti. Di conseguenza, Quaglia fa risiedere l’apparenza delle sagome nel vuoto, concependole come vere e proprie fisionomie dell’invisibile, per assistere alla perdita del peso della figura e alla formazione di configurazioni incorporee e mentali.

In questo processo creativo, nel loro farsi luogo, le libellule, le diverse varietà di fiori e di piante, le farfalle e gli insetti, conquistano il senso del loro essere singole individualità: non sono più semplici e gradevoli decorazioni, bensì pluralità di esistenze che abitano il medesimo spazio in cui si muovono gli uomini. Così, ad esempio, estraendo tutte le libellule dal foglio di carta decorativa e inserendole ciascuna dentro a un barattolo di vetro, l’artista genera elementi strutturali che compongono un Paesaggio, in cui anche il visitatore ha un ruoloattivo di convivenza. Difatti, ogni libellula dentro al suo barattolo è l’individuazione di una solitudine condivisa, di un’esigenza di dialogo, di un limite tra parola e gesto. Invece, i fiori azzurri raccolti in una busta trasparente o le diverse varietà di fiori, piante e insetti in parte custoditi

in una scatola di legno e in parte caduti per terra, sono la manifestazione dell’esistenza di figure, che assomigliano a pensieri della mente, da custodire e proteggere in un luogo intimo e accogliente. Ugualmente, i coriandoli disegnati e poi recisi su alcune tavole entomologiche, estratte da un libro di fine Ottocento dedicato allo studio dei coleotteri, sono l’interazione fra più elementi che suggeriscono presenze e assenze in uno spazio dinamico e ricostruito, rispetto alla singola pagina. Tutti i coleotteri, archiviati e presentati con ordine e misura, vivono in uno spazio coabitato dalla corrosione, in un luogo che restituisce la sensazione di un vuoto, di una mancanza, o la perdita di una storia che, nel caso delle Farfalle nostrali, è in parte recuperata e presentata in uno spazio a sé stante. Questi rapporti tra figure e forme, tra luoghi visibili e invisibili, tra spazi fisici e concettuali, sono alla radice del pensiero artistico di Gianluca Quaglia, il quale è costantemente alla ricerca di nuove relazioni tra l’essente e la suggestione che dal reale scaturisce, per vivere l’arte come una condizione che investe ogni cosa, nel quotidiano.